Dieci mesi fa, alla Festa di Natale, ho ballato quasi un’ ora con mia mamma.
Ballavamo pianino, i passi piccoli, la sorreggevo; ma lei ballava, a ritmo, come sempre.
Due settimane fa la mia mamma se ne è andata, mangiata da quella orrenda malattia che nel breve corso di alcuni mesi le ha precluso tutte le funzioni del suo corpo, dopo aver gravemente leso la sua meravigliosa intelligenza, la sua curiosità, la sua dialettica.
La mia mamma, che ha letto migliaia di libri, che ha convissuto con una miriade di parole, quelle parole che, egoiste,  hanno iniziato a sottrarsi ai suoi discorsi:  ma lei ha continuato a parlare inventandosene di completamente nuove e lo ha fatto fino all’ ultimo.
Leggevo di persone che non riconoscevano più i loro cari, malati: io mamma non l’ho mai persa, fino a quella orribile domenica.
Ho sempre mantenuto un contatto con lei, attraverso gli sguardi, attraverso le sue sgangherate e divertenti parole.
Lei mi ha sempre riconosciuta, anche le rare volte in cui mi ha chiamata ” mamma” o ” signora”.
Rarissime.
Non perdonerò mai a questa malattia di averla divorata in pochissimo tempo, di averla fatta diventare un corpicino piccolo piccolo, inerme, in quel letto. Mangiava mamma, non più da sola da non più di cinque mesi, ma mangiava.
Non aveva piaghe la mia mamma, non aveva polmonite, problemi cardiaci, problemi renali, nulla.
E’ morta, così. Una domenica.
E non c’entrava proprio nulla che lei dovesse morire, quel giorno.
Mio fratello ed io eravamo sempre lì a leggere, a cercare di capire e comprendevamo che mamma era un manuale della malattia, i suoi comportamenti, le sue fasi, coincidevano perfettamente con quanto la letteratura scientifica ci racconta.
Solo una cosa non ha coinciso, il tempo.
Mi dico che mamma non ha sofferto, forse ne sono anche convinta, è l’unica cosa che mi da un briciolo di consolazione.
Ma nulla, oggi, è in grado di distogliere il mio odio da questa infida malattia.