Scheltens P. et al. (2016)
Alzheimer’s disease
Lancet. Feb 23.
La malattia di Alzheimer (AD) è la causa più frequente di demenza e, ad oggi, si stima che ne siano affette circa 40 milioni di persone in tutto il mondo. Con la popolazione anziana in continua crescita l’incidenza nei prossimi 20 anni sarà circa il doppio e l’emergenza è tale che il G8 del 2013 si è posto come obiettivo primario quello di trovare una terapia efficace entro il 2025.
Il presente articolo, firmato da alcuni dei principali ricercatori del settore, fa il punto della situazione sull’AD e fornisce alcuni spunti sul come e quando questa malattia potrebbe essere “curata”. Il National Institute of Aging e l’Alzheimer Association hanno definito i criteri per la diagnosi dell’AD. Tali criteri hanno posto le basi per una diagnosi precoce e sempre più accurata, permettendo di riconoscere la malattia nel suo stadio preclinico grazie all’utilizzo dei biomarcatori e all’implementazione di tecniche di neuroimaging sempre più sofisticate. Negli ultimi anni, infatti, diversi studi hanno dimostrato come l’accumulo anomalo della proteina beta amiloide o evidenze di neurodegenerazione siano rilevabili in soggetti sani o con decadimento cognitivo lieve che poi evolveranno in AD. Questi soggetti a rischio di sviluppare AD hanno attirato l’attenzione della ricerca scientifica negli ultimi anni, tanto che sono in fase di sperimentazione diversi interventi preventivi che hanno l’obiettivo di ridurre il rischio cardiovascolare o di migliorare lo stile di vita, entrambi fattori correlati allo sviluppo di AD. Un altro campo in notevole avanzamento è quello della ricerca genetica che sta identificando alcune alterazioni in diversi geni e nell’RNA non codificante, che, oltre all’APOE4, potrebbero avere un ruolo importante nella suscettibilità alla malattia. I ricercatori stanno sperimentando nuove tecnologie di sequenziamento del genoma per identificare mutazioni rare che aumentano il rischio per i portatori. In questo panorama le neuroimmagini giocano un ruolo indispensabile nella valutazione del paziente con sospetto di AD. Tra queste citiamo la FDG-PET per la valutazione del metabolismo cerebrale. Inoltre recentemente sta entrando nella routine clinica la PET per l’amiloide, grazie allo sviluppo di alcuni traccianti (Florbetapir, Florbetaben e Flutemetamol) in grado di legarsi selettivamente alla proteina amiloide.
Per quanto riguarda i trattamenti farmacologici, i ricercatori si stanno concentrando su farmaci anti-amiloide, strategie di immunizzazione attiva e passiva, inibitori della γ – secretasi e della β- secretasi, e farmaci in grado di rallentare aggregazione di beta amiloide. Ci auguriamo che, in seguito alla dichiarazione del G8, l’AD diventi una condizione prevenibile e curabile. Parallelamente è necessario proseguire nello sviluppo di interventi multidominio che mirino alla modificazione dei fattori di rischio e alla promozione dei fattori protettivi, come la dieta e lo stile di vita.